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N. 422 SENTENZA 6 - 12 settembre 1995

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Elezioni - Rappresentanza dei sessi - Riserva di  quote  nelle  liste
 dei  candidati  -  Requisiti  di  eleggibilita' e di candidabilita' -
 Irrilevanza  giuridica  del  sesso  e  delle   altre   diversita'   -
 Inderogabilita'  della regola della assoluta parita' - Violazione del
 principio di uguaglianza - Illegittimita' costituzionale.
 
 (Legge 25 marzo 1993, n. 81, art. 5, secondo comma,  ultimo  periodo;
 legge  25  marzo  1993,  n.  81, art. 7, primo comma, ultimo periodo;
 legge 15 ottobre 1993, n. 415, art. 2; d.P.R. 30 marzo 1957, n.  361,
 art.  4,  secondo  comma,  n.  2,  ultimo  periodo,  come  modificato
 dall'art. 1, della legge 4 agosto 1993, n.  277;  legge  23  febbraio
 1995,  n.  43,  art.  1,  sesto comma; decreto della presidente della
 giunta regionale del Trentino-Alto Adige 13  gennaio  1995,  n.  1/L,
 artt.  41,  terzo  comma, 42, terzo comma, e 43, quarto comma, ultimo
 periodo, e quinto comma, ultimo periodo; legge regione Friuli-Venezia
 Giulia 9 marzo 1995, n.   14, art. 6, primo  comma,  ultimo  periodo;
 legge  regione  Valle d'Aosta 9 febbraio 1995, n. 4, art. 32, terzo e
 quarto comma)
 
(GU n.39 del 20-9-1995 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Antonio BALDASSARRE;
 Giudici: prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv.  Mauro  FERRI,  prof.  Luigi
    MENGONI,  prof.  Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Francesco
    GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando  SANTOSUOSSO,  avv.
    Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 5, secondo
 comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo  1993,  n.  81  (Elezione
 diretta  del  sindaco,  del presidente della provincia, del consiglio
 comunale e del consiglio provinciale), promosso con ordinanza  emessa
 il 27 maggio 1994 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Maio
 Giovanni  contro  il  Ministero dell'Interno ed altri, iscritta al n.
 700 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 1994;
    Visto l'atto di costituzione di Maio Giovanni;
    Udito nell'udienza pubblica del 27 giugno 1995 il Giudice relatore
 Mauro Ferri.
                           Ritenuto in fatto
    1. - L'elettore Giovanni Maio, iscritto nelle liste del comune  di
 Baranello,  avente  popolazione  non  superiore a 15.000 abitanti, ha
 impugnato avanti il T.A.R Molise le  operazioni  per  l'elezione  del
 sindaco e del consiglio comunale in quanto, tra i trentasei candidati
 al  consiglio  comunale complessivamente presentatisi nelle tre liste
 in competizione, era presente una sola donna, in violazione dell'art.
 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo  1993  n.  81,
 secondo  cui  "Nelle  liste  dei candidati nessuno dei due sessi puo'
 essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi".
    2. - Il Consiglio di Stato, in sede di appello avverso la sentenza
 del T.A.R. Molise, che aveva respinto  il  ricorso  interpretando  la
 citata disposizione come una proposizione legislativa priva di valore
 precettivo,  ha  sollevato  questione  di legittimita' costituzionale
 della medesima in riferimento agli artt. 3, primo  comma,  49  e  51,
 primo comma, della Costituzione.
   3.  -  Il  giudice  a  quo  premette, ai fini della rilevanza della
 questione,  che  in  altre  precedenti  decisioni   la   disposizione
 impugnata  (nel  testo anteriore alla modifica apportata con legge 15
 ottobre 1993, n. 415) e' gia'  stata  interpretata  nel  senso  della
 precettivita'  della  norma  sulla  rappresentanza  dei  sessi, salvo
 deroghe da motivare in sede di presentazione delle  liste,  che,  nel
 caso di specie, non sono state in alcun modo addotte.
    Il  Consiglio  di  Stato  ritiene, altresi', che la modifica della
 disposizione, operata  dalla  legge  n.  415  del  1993  mediante  la
 soppressione   della   locuzione  "di  norma",  e  l'attribuzione  di
 inequivocabile valore precettivo alla  proposizione,  non  possa  non
 riflettersi  sull'interpretazione  della formula originaria, sia pure
 considerando che la successiva legge avrebbe  trovato  altrimenti  il
 modo  di eludere la necessita' di rappresentanza dei sessi proclamata
 nella legge di pochi mesi prima: mentre infatti la legge n.  81,  con
 la  dizione  "nessuno  dei  due sessi puo' essere .. rappresentato in
 misura superiore ai  due  terzi",  faceva  implicito  riferimento  al
 numero  dei  candidati  in  lista,  e  quindi imponeva la presenza di
 candidati d'ambo i sessi, la successiva  dizione,  "nessuno  dei  due
 sessi puo' essere rappresentato in misura superiore ai tre quarti dei
 consiglieri  assegnati", facendo riferimento al numero di consiglieri
 comunali da eleggere, e facendo coincidere la  presenza  massima  dei
 candidati  di un sesso con il numero minimo dei candidati da porre in
 lista, consente la presentazione di liste con candidati  di  un  solo
 sesso.
    4.  -  Ritenuto  dunque  il  valore precettivo della disposizione,
 anche prima della modificazione apportata dalla citata legge n.  415,
 il  collegio  remittente  dubita  della  legittimita'  costituzionale
 dell'art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della  legge  n.  81  del
 1993,   il   quale  avrebbe  per  la  prima  volta  introdotto  nella
 legislazione elettorale la nozione di "rappresentanza dei sessi".
    La questione di legittimita' viene sollevata in  primo  luogo  con
 riferimento  al  principio  di  eguaglianza, sancito dall'articolo 3,
 primo comma, della Costituzione, e ribadito, in  materia  elettorale,
 dall'art.  51,  primo comma. Il principio di eguaglianza, secondo cui
 "tutti ..sono uguali davanti alla legge, senza distinzione  di  sesso
 ..  ", si porrebbe, infatti, come regola di irrilevanza giuridica del
 sesso e delle altre diversita' contemplate dall'art. 3.
    5. - D'altra parte, prosegue il remittente, escluso che  nel  caso
 in   esame   il   sesso  costituisca  una  situazione  obiettivamente
 giustificante la  sua  assunzione  ad  elemento  di  una  fattispecie
 normativa,  non  sembra neppure che si possa dare rilievo al sesso in
 base  alla  regola cosiddetta di "eguaglianza sostanziale", di cui al
 secondo  comma  dell'art.   3,   come,   verosimilmente,   e'   stato
 intendimento del legislatore.
    La  regola  secondo  cui e' compito della Repubblica rimuovere gli
 ostacoli di ordine sociale, che, limitando di fatto l'eguaglianza dei
 cittadini, impediscono  il  pieno  sviluppo  della  persona  umana  e
 l'effettiva  partecipazione  di tutti i lavoratori all'organizzazione
 politica del  Paese,  non  potrebbe  che  riferirsi,  ad  avviso  del
 remittente,  agli  ostacoli  di  ordine  materiale  la  cui esistenza
 vanifica o limita, per taluni, i diritti  astrattamente  garantiti  a
 tutti, ma non ai pregiudizi ed agli atteggiamenti di disfavore da cui
 taluni  o  molti  possono  essere  affetti  nei  confronti di persone
 appartenenti a un sesso o a una data razza, religione, o madrelingua.
 Il principio di eguaglianza  davanti  alla  legge,  inoltre,  sarebbe
 vanificato  se,  in  nome  di una pretesa eguaglianza sostanziale, il
 legislatore potesse assumere disposizioni di favore in ragione  delle
 diverse condizioni personali elencate nel primo comma, o in ogni caso
 assumere   quelle  diverse  condizioni  personali  come  elemento  di
 discriminazione fine a se stessa. Sotto questo  profilo,  osserva  il
 remittente, non sembra esservi nessuna differenza tra l'escludere uno
 dei  due  sessi  da  determinati  uffici  o  cariche, e il prevederne
 obbligatoriamente la  presenza,  ove  questa  non  sia  richiesta  da
 esigenze oggettive.
    6.  - Analoghe considerazioni vengono espresse per quanto riguarda
 l'eguaglianza nell'accesso alle cariche elettive proclamata dall'art.
 51, primo comma; al riguardo il Consiglio di  Stato  osserva  che  il
 costituente ha ritenuto opportuno (con riferimento alla situazione di
 allora,  nella  quale le donne erano escluse dalle cariche elettive e
 dalla maggior parte degli uffici pubblici) precisare che  il  diritto
 di  accesso  alle  cariche  e  agli  uffici  si riferiva ai cittadini
 "dell'uno o dell'altro sesso"; ma, acquisito cio', non puo' ritenersi
 che l'eguaglianza tra  i  sessi  nelle  cariche  elettive  significhi
 qualcosa  di diverso dalla indifferenza del sesso ai fini considerati
 nella  disposizione  costituzionale,  e  in  particolare  che   detta
 eguaglianza  sia  qualcosa  che  debba  essere  "attuato" mediante la
 positiva previsione del sesso come condizione di accesso alle cariche
 elettive.
    7. - L'art. 51, primo  comma,  verrebbe  in  considerazione  anche
 sotto altro profilo.
    Il  giudice  a  quo osserva che il diritto di accesso alle cariche
 elettive  comporta  il  divieto  di  stabilire  titoli  o  condizioni
 positive  per  l'accesso  alle  cariche stesse, diversi dai requisiti
 previsti in via generale per il  godimento  dei  diritti  politici  e
 dall'assenza  di  cause di ineleggibilita'; ma una volta stabilite le
 cause  di  ineleggibilita',   il   legislatore   non   potrebbe   poi
 contemplare,  fra le condizioni per la assunzione di cariche elettive
 e per la partecipazione alle  relative  competizioni,  l'appartenenza
 all'uno  o  all'altro  dei due sessi, ad una razza, religione, gruppo
 linguistico, ovvero il possesso di determinate altre  caratteristiche
 o condizioni personali.
    La  disposizione  elettorale  in  esame  introdurrebbe, quindi, un
 concetto di "rappresentanza dei sessi" che,  se  legittimo,  dovrebbe
 essere applicato non tanto alla composizione delle liste di candidati
 nei  sistemi  plurinominali  quanto piuttosto alla composizione degli
 organi  elettivi:  di  cio', osserva il Collegio remittente, ci si e'
 resi ben conto, dal momento  che  nei  lavori  preparatori  e'  stato
 enunciato  che la rappresentanza dei sessi nelle liste ha una portata
 limitata  rispetto  alla  espressione  di  preferenze  separate   per
 candidati  dei due sessi o, comunque, alla presenza dei due sessi tra
 gli eletti.
    8.  -  Cio'  posto,  prosegue  il  giudice  a  quo,   un'eventuale
 rappresentanza  collettiva  di  un  gruppo  linguistico,  razziale  o
 religioso,  negli  organi  elettivi,  deve  necessariamente   trovare
 fondamento  nel  patto costituzionale, costituendo essa una deroga al
 principio  di  eguaglianza  dei  cittadini;  il  che,  sottolinea  il
 Consiglio  di  Stato,  non e' riscontrabile nell'attuale ordinamento,
 anche ammesso che una regola siffatta sia mai concepibile.
    9. - Infine, il remittente ravvisa il contrasto della disposizione
 impugnata con la regola di liberta'  politica  sancita  dall'art.  49
 della  Costituzione: norma che consentirebbe soltanto ai cittadini di
 essere arbitri di determinare gli interessi da rappresentare in  sede
 politica,  e  quindi  anche  di  costituire gruppi e movimenti che si
 prefiggano di esaltare gli interessi di  coloro  che  si  trovino  in
 determinate condizioni personali, tra cui sesso, razza, o religione.
    Posto,  quindi,  che le liste elettorali presentate dagli elettori
 sono null'altro che i partiti politici  nel  momento  elettorale,  ad
 avviso del remittente, il legislatore non potrebbe limitare le scelte
 dei  presentatori  delle  liste  elettorali,  e  imporre che le liste
 stesse contengano, in tutto o in parte, candidati di  un  determinato
 sesso, o aventi qualsiasi altra caratteristica, fisica, intellettuale
 o morale, diversa dal possesso dei requisiti, positivi o negativi, di
 eleggibilita'.
    10. - Ha presentato atto di costituzione Maio Giovanni, appellante
 nel  giudizio  a  quo, concludendo per l'infondatezza della sollevata
 questione.
    La parte privata ritiene, in sostanza, che  la  norma  di  cui  si
 sospetta      l'illegittimita'      costituzionale     non     impone
 incondizionatamente l'obbligo di proporzione tra i sessi nelle  liste
 ma  solo di motivare adeguatamente i casi in cui tale proporzione non
 puo' essere raggiunta.
    A questo conseguirebbe l'assenza di qualsiasi lesione ai  principi
 costituzionali espressi dagli artt. 3, 49 e 51.
    Le    stesse   argomentazioni   evidenziate   dall'amministrazione
 resistente, con particolare riferimento alle  difficolta'  incontrate
 dai   presentatori   delle   liste  nell'ottenere  l'accettazione  di
 candidature da parte di  elettrici,  mentre  evidenzia  l'assenza  di
 qualsiasi danno per i presentatori (potendo essi stessi motivare tali
 ragioni,  ottenendo  la  deroga),  comproverebbero  la sussistenza di
 legittime ragioni, sotto il profilo  costituzionale,  perseguite  dal
 legislatore.
    Ne'  potrebbe  disconoscersi sia il ruolo che l'effetto dispiegato
 dalla  norma,  e  cioe'  quello  di  rimuovere,   ove   correttamente
 interpretata ed applicata, gli ostacoli che, per tradizione o costume
 o  per altri motivi di natura socioeconomica impediscono di fatto, in
 particolare al sesso femminile, di prendere parte alla vita  politica
 locale,  relegandone le potenzialita' e le capacita' di impegno in un
 contesto marginale, e riconoscendo di fatto, al  sesso  maschile,  un
 vero  e  proprio  monopolio  all'interno della vita politica di tanti
 comuni e piccole realta' locali.
    11. - In assenza della citata norma,  osserva  la  parte  privata,
 verrebbe  vanificata l'attuazione del secondo comma dell'art. 3 della
 Costituzione, il quale diverrebbe un'inutile  ripetizione  del  primo
 comma,  ovvero del principio valido, ma tuttavia superato dal sistema
 giuridico-costituzionale, dell'"eguaglianza formale", ovvero  di  una
 eguaglianza  di  per  se'  inidonea  a  garantire  ai cittadini "pari
 opportunita'" ed "uguali diritti", quanto meno nelle disposizioni "di
 partenza", e conseguentemente anche  in  sede  di  elettorato  attivo
 (opportunita'  di scelta) e passivo (diritto di accesso alle cariche:
 art. 51 della Costituzione).
    12. - Ne' potrebbe invocarsi un  principio  di  liberta'  politica
 (art.  49  della Costituzione) nel senso di esaltare gli interessi di
 coloro i quali si trovino in determinate  condizioni  personali,  ivi
 compreso il sesso, la razza, la religione e via dicendo, essendo tali
 scelte  o incostituzionali o, se legittime sotto tale ultimo profilo,
 sempre  ammissibili,  previa   congrua   motivazione   in   sede   di
 presentazione  della  lista  e  di  ammissione  della stessa, essendo
 riconosciuta, grazie alla  locuzione  "di  norma",  ove  argomentata,
 qualsiasi legittima volonta', se costituzionalmente tutelata.
                        Considerato in diritto
    1.  - Il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 5,  secondo  comma,  ultimo  periodo,  della
 legge  25 marzo 1993, n. 81 dal titolo "Elezione diretta del sindaco,
 del  presidente  della  provincia,  del  consiglio  comunale  e   del
 consiglio   provinciale".   La   disposizione,   che   si   riferisce
 all'elezione dei consiglieri comunali nei comuni con popolazione sino
 a 15.000 abitanti, recita: "Nelle liste dei candidati nessuno dei due
 sessi puo' essere di norma rappresentato in misura  superiore  a  due
 terzi".  Ad  avviso del giudice remittente detta norma contrasterebbe
 con  gli  artt.  3,  primo  comma,  49  e  51,  primo  comma,   della
 Costituzione.
    Questa  Corte,  pertanto,  e'  chiamata a decidere se la norma che
 stabilisce una riserva di quote per l'uno e per l'altro  sesso  nelle
 liste  dei  candidati,  sia  compatibile col principio di eguaglianza
 enunciato nel primo  comma  dell'art.  3  e  confermato,  per  quanto
 riguarda specificamente l'accesso agli uffici pubblici e alle cariche
 elettive,  dal primo comma dell'art. 51; nonche' col diritto di tutti
 i cittadini, garantito dall'art. 49, "di  associarsi  liberamente  in
 partiti  per  concorrere  con  metodo  democratico  a  determinare la
 politica nazionale"; diritto di cui la presentazione delle liste  dei
 candidati alle elezioni costituisce essenziale estrinsecazione.
    2.  -  Il  Consiglio  di  Stato si e' dato carico, in primo luogo,
 dell'interpretazione della norma;  questione  del  resto  posta  come
 unico motivo d'appello contro la sentenza del T.A.R. della Basilicata
 sul quale il giudice a quo deve pronunciarsi.
    Il  legislatore,  nello  stabilire la quota di riserva per l'uno e
 per l'altro sesso nelle liste dei candidati al consiglio comunale, ha
 usato la locuzione "di norma", espressione che, secondo il giudice di
 primo grado, indicava il carattere solo programmatico  e  d'indirizzo
 della  disposizione.  Il  giudice  d'appello, invece, uniformandosi a
 proprie  precedenti  decisioni,  ritiene  che  essa  abbia  carattere
 precettivo,  e  che  tale  lettura  venga confermata dalla successiva
 modifica legislativa intervenuta con la legge 15 ottobre 1993, n. 72.
 Non  vi  sono  motivi  per discostarsi da questa interpretazione, del
 resto gia' enunciata dall'Adunanza generale del Consiglio di Stato.
    3. - Si puo' quindi passare all'esame del merito della  questione,
 valutando   in  primo  luogo,  congiuntamente,  per  la  loro  intima
 connessione, i profili di violazione dell'art. 3, primo comma, e  51,
 primo comma, della Costituzione.
    La questione e' fondata.
    Sostiene  il  giudice  remittente  che il principio di eguaglianza
 secondo cui "tutti sono uguali davanti alla legge  senza  distinzioni
 di  sesso,  di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
 di condizioni personali e sociali" (art.  3,  primo  comma)  si  pone
 "prima  di  tutto  come  regola  di irrilevanza giuridica del sesso e
 delle altre diversita' contemplate".
    Tale regola, e' a sua volta ribadita,  in  materia  di  elettorato
 passivo,  dall'art.  51,  primo  comma: "tutti i cittadini dell'uno e
 dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche
 elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti  stabiliti
 dalla  legge";  eguaglianza  che,  secondo il giudice remittente, non
 puo' avere significato diverso da quello dell'indifferenza del  sesso
 ai fini considerati.
    Detta  lettura  del  dettato  costituzionale  non  puo' non essere
 condivisa. Essa  corrisponde  infatti  al  significato  letterale  ed
 esplicito della formula adottata, ed al suo collegamento con il primo
 comma dell'art. 3. Anzi, proprio con riferimento alla formulazione di
 questa norma, potrebbe apparire superflua la specificazione "dell'uno
 e  dell'altro  sesso",  essendo  di per se' sufficiente l'espressione
 "tutti i cittadini"; ma e' invece comprensibile che i  costituenti  -
 cosi'  come gia' nell'art. 48 avevano ribadito "sono elettori tutti i
 cittadini, uomini e  donne,  .."  -  abbiano  voluto  rafforzare,  in
 riferimento agli uffici pubblici e alle cariche elettive, il precetto
 esplicito  dell'eguaglianza  fra  i  due  sessi.  Va tenuto conto del
 contesto storico in cui essi operavano: le leggi vigenti  escludevano
 le  donne da buona parte degli uffici pubblici, e l'elettorato attivo
 e   passivo,   concesso   loro   nel   1945   (decreto    legislativo
 luogotenenziale 1 febbraio 1945, n. 23), era stato per la prima volta
 esercitato  in  sede  politica con la elezione della stessa Assemblea
 costituente. Anche dai lavori preparatori e dal raffronto  del  testo
 della  Carta costituzionale con quello proposto dalla commissione dei
 settantacinque, si ricava che si volle sottolineare l'eguaglianza fra
 i due sessi, nel significato prima ricordato, senza  possibilita'  di
 dubbi: fu aggiunta la menzione delle cariche elettive, e fu soppresso
 l'inciso  "conformemente alle loro attitudini" nel timore che potesse
 giustificare  il  mantenimento  di  esclusioni  discriminatrici   nei
 confronti delle donne.
    4.  - Posto dunque che l'art. 3, primo comma, e soprattutto l'art.
 51, primo comma, garantiscono l'assoluta eguaglianza fra i due  sessi
 nella  possibilita'  di accedere alle cariche pubbliche elettive, nel
 senso che l'appartenenza all'uno  o  all'altro  sesso  non  puo'  mai
 essere  assunta  come  requisito  di  eleggibilita',  ne consegue che
 altrettanto deve affermarsi per quanto riguarda la  "candidabilita'".
 Infatti,  la possibilita' di essere presentato candidato da coloro ai
 quali (siano essi organi di partito, o gruppi di elettori) le diverse
 leggi elettorali, amministrative, regionali o politiche attribuiscono
 la facolta' di presentare liste di candidati o candidature singole, a
 seconda  dei  diversi  sistemi  elettorali  in  vigore, non e' che la
 condizione pregiudiziale e necessaria per poter  essere  eletto,  per
 beneficiare  quindi  in  concreto  del  diritto di elettorato passivo
 sancito dal richiamato primo comma dell'art.  51.  Viene  pertanto  a
 porsi in contrasto con gli invocati parametri costituzionali la norma
 di  legge  che  impone  nella  presentazione  delle  candidature alle
 cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote  in  ragione  del
 sesso dei candidati.
    5.  -  Tanto basta per dichiarare la illegittimita' costituzionale
 della norma sottoposta al giudizio di questa Corte, nondimeno  alcune
 ulteriori  considerazioni possono chiarire ancor meglio altri aspetti
 della questione.
    Risulta dai lavori preparatori, che la disposizione che impone una
 riserva  di  quota  in  ragione  del  sesso  dei  candidati,  seppure
 formulata  in  modo  per cosi' dire "neutro", nei confronti sia degli
 uomini che delle donne, e' stata proposta  e  votata  (dopo  ampio  e
 contrastato dibattito) con la dichiarata finalita' di assicurare alle
 donne  una  riserva  di  posti  nelle liste dei candidati, al fine di
 favorire le condizioni per un riequilibrio della  rappresentanza  dei
 sessi  nelle  assemblee  comunali. Nell'intendimento del legislatore,
 pertanto, la norma tendeva a configurare una sorta di azione positiva
 volta a favorire  il  raggiungimento  di  una  parita'  non  soltanto
 formale,  bensi' anche sostanziale, fra i due sessi nell'accesso alle
 cariche pubbliche elettive; in tal senso essa avrebbe  dovuto  trarre
 la   sua   legittimazione   dal   secondo  comma  dell'art.  3  della
 Costituzione.
    6.  -  Non  e'  questa  la  sede  per  soffermarsi  sul  dibattito
 dottrinale,  storico  e  politico  che  si  e'  sviluppato intorno ai
 concetti di eguaglianza  formale  e  di  eguaglianza  sostanziale,  e
 conseguentemente  al  nesso che intercorre fra il primo ed il secondo
 comma dell'art. 3 della Costituzione.
    Certamente fra le cosiddette azioni positive intese  a  "rimuovere
 gli  ostacoli  di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
 la liberta'  e  l'eguaglianza  dei  cittadini  impediscono  il  pieno
 sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i
 lavoratori  all'organizzazione  politica,  economica  e  sociale  del
 Paese",  vanno  comprese  quelle  misure  che,  in  vario  modo,   il
 legislatore  ha  adottato  per  promuovere  il  raggiungimento di una
 situazione di pari opportunita' fra i sessi: ultime tra queste quelle
 previste dalla legge 10 aprile 1991, n. 125 (Azioni positive  per  la
 realizzazione  della  parita' uomo-donna nel lavoro) e dalla legge 25
 febbraio  1992,  n.  215   (Azioni   positive   per   l'imprenditoria
 femminile).  Ma  se  tali  misure legislative, volutamente diseguali,
 possono  certamente  essere  adottate  per  eliminare  situazioni  di
 inferiorita'   sociale   ed  economica,  o,  piu'  in  generale,  per
 compensare e rimuovere le diseguaglianze materiali tra gli  individui
 (quale presupposto del pieno esercizio dei diritti fondamentali), non
 possono  invece  incidere  direttamente  sul contenuto stesso di quei
 medesimi diritti, rigorosamente garantiti in egual misura a  tutti  i
 cittadini in quanto tali.
    In  particolare,  in  tema  di  diritto all'elettorato passivo, la
 regola inderogabile stabilita dallo stesso Costituente, con il  primo
 comma  dell'art.  51,  e'  quella dell'assoluta parita', sicche' ogni
 differenziazione  in  ragione  del  sesso  non  puo'  che   risultare
 oggettivamente  discriminatoria,  diminuendo  per taluni cittadini il
 contenuto concreto di un diritto fondamentale  in  favore  di  altri,
 appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato.
    E'  ancora  il  caso  di  aggiungere, come ha gia' avvertito parte
 della dottrina nell'ampio dibattito sinora sviluppatosi  in  tema  di
 "azioni  positive",  che  misure  quali  quella in esame non appaiono
 affatto  coerenti  con  le  finalita'  indicate  dal  secondo   comma
 dell'art.  3  della  Costituzione, dato che esse non si propongono di
 "rimuovere" gli ostacoli che impediscono alle  donne  di  raggiungere
 determinati  risultati,  bensi'  di attribuire loro direttamente quei
 risultati medesimi: la ravvisata disparita' di condizioni, in  breve,
 non  viene  rimossa,  ma costituisce solo il motivo che legittima una
 tutela preferenziale in base al sesso. Ma proprio questo, come si  e'
 posto  in evidenza, e' il tipo di risultato espressamente escluso dal
 gia'  ricordato  art.  51  della  Costituzione,  finendo  per  creare
 discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate.
    7.  -  Questa  Corte  nel corso degli anni dal suo insediamento ad
 oggi, ogni qual volta sono state sottoposte al  suo  esame  questioni
 suscettibili  di  pregiudicare  il  principio  di  parita' fra uomo e
 donna, ha operato al fine di eliminare ogni forma di discriminazione,
 giudicando favorevolmente ogni misura intesa a  favorire  la  parita'
 effettiva.  Ma, val la pena ripetere, si e' sempre trattato di misure
 non direttamente incidenti sui  diritti  fondamentali,  ma  piuttosto
 volte a promuovere l'eguaglianza dei punti di partenza e a realizzare
 la  pari  dignita'  sociale  di  tutti i cittadini, secondo i dettami
 della Carta costituzionale.
    C'e' ancora da ricordare che  misure  quali  quella  in  esame  si
 pongono irrimediabilmente in contrasto con i principi che regolano la
 rappresentanza  politica,  quali si configurano in un sistema fondato
 sulla  democrazia  pluralistica,  connotato  essenziale  e  principio
 supremo della nostra Repubblica.
    E'    opportuno,    infine,   osservare   che   misure   siffatte,
 costituzionalmente illegittime in quanto imposte per  legge,  possono
 invece  essere  valutate  positivamente  ove  liberamente adottate da
 partiti  politici,  associazioni  o  gruppi  che   partecipano   alle
 elezioni,  anche  con  apposite  previsioni  dei rispettivi statuti o
 regolamenti  concernenti  la  presentazione  delle   candidature.   A
 risultati  validi  si  puo' quindi pervenire con un'intensa azione di
 crescita culturale che porti partiti e forze politiche a  riconoscere
 la  necessita'  improcrastinabile  di perseguire l'effettiva presenza
 paritaria  delle  donne  nella  vita  pubblica,   e   nelle   cariche
 rappresentative  in  particolare.  Determinante  in  tal  senso  puo'
 risultare il diretto impegno  dell'elettorato  femminile  ed  i  suoi
 conseguenti comportamenti.
    Del resto, mentre la convenzione sui diritti politici delle donne,
 adottata   a   New   York   il   31  marzo  1953,  e  la  Convenzione
 sull'eliminazione di tutte  le  forme  di  discriminazione,  adottata
 anch'essa  a  New York il 18 dicembre 1979, prevedono per le donne il
 diritto di votare e di essere elette in condizioni di parita' con gli
 uomini, il Parlamento europeo, con la risoluzione n. 169 del 1988, ha
 invitato i partiti politici a  stabilire  quote  di  riserva  per  le
 candidature  femminili;  e'  significativo  che  l'appello  sia stato
 indirizzato ai partiti politici e non  ai  governi  e  ai  parlamenti
 nazionali,  riconoscendo  cosi',  in questo campo, l'impraticabilita'
 della via di soluzioni legislative.
    Spetta invece al legislatore individuare interventi di altro tipo,
 certamente possibili sotto il profilo dello  sviluppo  della  persona
 umana,   per  favorire  l'effettivo  riequilibrio  fra  i  sessi  nel
 conseguimento delle cariche pubbliche elettive, dal momento che molte
 misure, come si e' detto, possono essere  in  grado  di  agire  sulle
 differenze di condizioni culturali, economiche e sociali.
    Resta  comunque  escluso che sui principi di eguaglianza contenuti
 nell'art.   51,   primo   comma,   possano   incidere   direttamente,
 modificandone  i caratteri essenziali, misure dirette a raggiungere i
 fini previsti dal secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.
    8. - Va pertanto dichiarata l'illegittimita' costituzionale  della
 norma   impugnata,   per   violazione   degli  artt.  3  e  51  della
 Costituzione, restando assorbito l'ulteriore profilo d'illegittimita'
 costituzionale sollevato in ordine all'art. 49.
    In applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87,  la
 dichiarazione  di illegittimita' costituzionale va estesa all'art. 7,
 primo comma, ultimo periodo della stessa legge 25 marzo 1993, n.  81,
 che  contiene  l'identica prescrizione per le liste dei candidati nei
 Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.  Trattandosi  di
 disposizioni  sostitutive contenenti misure analoghe in contrasto coi
 principi affermati nella odierna decisione  devono  parimenti  essere
 dichiarate costituzionalmente illegittime le nuove formulazioni degli
 stessi  art. 5, secondo comma, ultimo periodo, e art. 7, primo comma,
 ultimo periodo, introdotte dall'art. 2 della legge 15  ottobre  1993,
 n. 415.
    Ritiene   inoltre   la  Corte  che  debba  esser  fatta  ulteriore
 applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del  1953  nei  confronti
 delle  misure che prevedono limiti, vincoli o riserve nelle liste dei
 candidati in ragione del loro sesso; misure, introdotte  nelle  leggi
 elettorali  politiche, regionali o amministrative ivi comprese quelle
 contenute in leggi regionali, la  cui  illegittimita'  costituzionale
 deve  ritenersi  conseguenziale  per  la  sostanziale  identita'  dei
 contenuti normativi, non potendo certamente essere lasciati spazi  di
 incostituzionalita'  (da cui discenderebbero incertezze e contenzioso
 diffuso) in materia quale quella elettorale,  dove  la  certezza  del
 diritto  e'  di  importanza  fondamentale  per il funzionamento dello
 Stato democratico.
    Va pertanto dichiarata l'illegittimita' costituzionale anche delle
 norme seguenti:
      art. 4, secondo comma, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo
 1957, n. 361 (Testo unico delle leggi recanti norme per  la  elezione
 della  Camera dei deputati), come modificato dall'art. 1, della legge
 4 agosto 1993, n. 277;
      art. 1, sesto comma, della legge 23 febbraio 1995, n. 43  (Nuove
 norme   per   la  elezione  dei  consigli  delle  Regioni  a  statuto
 ordinario);
      artt. 41, terzo comma, 42,  terzo  comma  e  43,  quarto  comma,
 ultimo  periodo, e quinto comma, ultimo periodo, (corrispondenti alle
 rispettive norme degli artt.  18,  19  e  20  della  legge  regionale
 Trentino-Alto   Adige  30  novembre  1994,  n.  3)  del  decreto  del
 Presidente della Giunta regionale del Trentino-Alto Adige 13  gennaio
 1995, n. 1/L (Testo unico delle leggi regionali sulla composizione ed
 elezione degli organi delle amministrazioni comunali);
      art.  6,  primo  comma,  ultimo  periodo,  della legge regionale
 Friuli-Venezia Giulia 9 marzo 1995, n.  14  (Norme  per  le  elezioni
 comunali nel territorio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia,
 nonche' modificazioni alla legge regionale 12 settembre 1991, n. 49);
      art.  32,  terzo  e  quarto  comma,  della legge regionale Valle
 d'Aosta 9 febbraio 1995, n. 4 (Elezione diretta del sindaco, del vice
 sindaco e del consiglio comunale).
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  5,   secondo
 comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81
 (Elezione  diretta  del  sindaco, del presidente della provincia, del
 consiglio comunale e del consiglio provinciale);
    Dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n.  87,
 l'illegittimita' costituzionale delle seguenti disposizioni:
      art.  7, primo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993,
 n. 81;
      art. 2 della  legge  15  ottobre  1993,  n.  415  (Modifiche  ed
 integrazioni alla legge 25 marzo 1993, n. 81);
      art. 4, secondo comma, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo
 1957, n. 361, come modificato dall'art. 1, della legge 4 agosto 1993,
 n.  277, (Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della
 Camera dei deputati);
      art. 1, sesto comma, della legge 23 febbraio 1995, n. 43  (Nuove
 norme   per   la  elezione  dei  consigli  delle  regioni  a  statuto
 ordinario);
      artt. 41, terzo comma, 42, terzo  comma,  e  43,  quarto  comma,
 ultimo  periodo,  e quinto comma, ultimo periodo (corrispondenti alle
 rispettive norme degli artt.  18,  19  e  20  della  legge  regionale
 Trentino-Alto   Adige  30  novembre  1994,  n.  3)  del  decreto  del
 Presidente della Giunta regionale del Trentino-Alto Adige 13  gennaio
 1995, n. 1/L (Testo unico delle leggi regionali sulla composizione ed
 elezione degli organi delle amministrazioni comunali);
      art.  6,  primo  comma,  ultimo  periodo,  della legge regionale
 Friuli-Venezia Giulia 9 marzo 1995, n.  14  (Norme  per  le  elezioni
 comunali nel territorio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia,
 nonche' modificazioni alla legge regionale 12 settembre 1991, n. 49);
      art.  32,  terzo  e  quarto  comma,  della legge regionale Valle
 d'Aosta 9 febbraio 1995, n. 4 (Elezione diretta del sindaco, del vice
 sindaco e del consiglio comunale).
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 6 settembre 1995.
                      Il Presidente: BALDASSARRE
                          Il redattore: FERRI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 12 settembre 1995.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 95C1196