N. 226 SENTENZA 1 - 19 giugno 1998

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Lavoro - Concessioni di pubblico servizio - Lavoratori dipendenti - Inserzione della clausola esplicita determinante l'obbligo per il concessionario di applicare o di fare applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona (c.d. clausola sociale) - Omessa previsione - Violazione del principio di imparzialita' e buon andamento della p.a. e di tutela del lavoro subordinato - Illegittimita' costituzionale. (Legge 20 marzo 1970, n. 300, art. 36). (Cost., art. 3, primo comma)

 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 36 della legge
 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta' e  dignita'
 dei  lavoratori,  della liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale
 nei  luoghi  di  lavoro  e  norme  sul  collocamento),  promosso  con
 ordinanza  emessa  l'8  febbraio  1996  dalla Corte di cassazione sul
 ricorso proposto da Pennisi Michele  contro  la  Brumital  S.p.a.  ed
 altra,  iscritta  al n. 1358 del registro ordinanze 1996 e pubblicata
 nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale,
 dell'anno 1997;
   Udito nella camera di consiglio del  28  gennaio  1998  il  giudice
 relatore Massimo Vari;
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Con  ordinanza  emessa  l'8  febbraio 1996 (R.O. n. 1358 del
 1996), la Corte di cassazione ha sollevato  questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme
 sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta'
 sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
 collocamento).
   Secondo il rimettente, la disposizione si  pone  in  contrasto  con
 l'art.  3,  primo  comma,  della Costituzione, nella parte in cui non
 prevede  -  contrariamente  a  quanto  contemplato,  invece,  per   i
 provvedimenti  di  concessione di benefici accordati dallo Stato e da
 enti pubblici ad imprenditori e per i capitolati di appalto attinenti
 all'esecuzione di opere pubbliche -  l'inserzione  obbligatoria,  nei
 contratti aventi ad oggetto la concessione di pubblici servizi, della
 clausola   di   equo   trattamento,  determinante  l'obbligo  per  il
 beneficiario o appaltatore di  applicare  o  di  far  applicare,  nei
 confronti  dei  lavoratori  dipendenti,  condizioni  non  inferiori a
 quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della  categoria
 e della zona.
   2.  -  La  questione  e'  stata  sollevata nell'ambito del giudizio
 promosso da Pennisi Michele, medico alle  dipendenze  della  Casa  di
 cura "S.  Maria Center" S.p.a. nel periodo dal gennaio 1980 al luglio
 1988,   per   ottenere   la   condanna  del  datore  di  lavoro  alla
 corresponsione di emolumenti ed indennita' retributive sulla base del
 piu'  favorevole  trattamento  economico   previsto   dal   contratto
 collettivo  15  luglio  1987,  laddove,  invece,  la  societa'  aveva
 continuato a far riferimento al previgente contratto collettivo.
   Il giudice a quo, fra i vari motivi  di  impugnazione  addotti  dal
 ricorrente    (erronea    determinazione    del   giudice   d'appello
 sull'inapplicabilita', al caso sottoposto a cognizione, dell'art.  36
 della  legge n. 300 del 1970; legittimazione diretta ed immediata del
 lavoratore ad esigere il rispetto del trattamento economico-normativo
 cui  si  riferisce  il  medesimo  art.  36,  nonostante  la   mancata
 inserzione  della  relativa  clausola;  efficacia  nei  confronti del
 datore di lavoro di contratto collettivo successivamente intervenuto,
 in virtu' dell'adesione al contratto previgente), ritiene di  dar  la
 precedenza  "sul  piano  logico"  all'esame  di  quello relativo alla
 applicabilita' o meno dell'art.  36 della legge n. 300 del 1970  alla
 fattispecie dedotta in giudizio.
   In  ordine  a  quest'ultima, l'ordinanza assume che la convenzione,
 stipulata dalla Casa di cura con il competente Assessorato regionale,
 per regolare la prestazione dei servizi resi dalla  prima  in  favore
 degli   assistiti   ed  in  relazione  ai  quali  veniva  versato  un
 corrispettivo dalla Regione Sicilia, rivesta - sulla  base  anche  di
 quanto dedotto dal ricorrente - "al pari di quelle stipulate ai sensi
 dell'art.    44 della legge n. 833 del 23 dicembre 1978 tra le unita'
 sanitarie locali e le case  di  cura  (o  altre  strutture  private),
 natura  di  contratto di diritto pubblico", dando, percio' vita ad un
 "rapporto  qualificabile  come  concessione  amministrativa   di   un
 pubblico servizio".
   3. - Escluso tuttavia che, nel caso in esame, il rapporto giuridico
 fra  privato  concessionario e pubblica amministrazione possa essere,
 sia pure in via  analogica,  ricompreso  nello  specifico  ambito  di
 applicazione della disposizione di cui all'art. 36 della legge n. 300
 del  1970,  il giudice a quo rammenta i numerosi interventi normativi
 che hanno segnato nel tempo "la  positiva  ingerenza  della  pubblica
 amministrazione   nella   disciplina   dei   rapporti   tra   imprese
 appaltatrici di opere pubbliche o concessionari di pubblici servizi e
 lavoratori da essi dipendenti al fine  di  assicurare  loro  un  equo
 trattamento".  In  questo  quadro  di  riferimento  si colloca, a suo
 avviso,  anche  l'art.  36  della  legge  n.  300  del  1970,   quale
 disposizione  che  si  prefigge  di "assegnare dignita' normativa" ai
 principi enunciati nella convenzione OIL n.  94 ed, al  contempo,  di
 superare il carattere settoriale dei pregressi interventi legislativi
 in  materia,  attribuendo cosi' "una dimensione compiuta al principio
 gia' accolto" dagli stessi, con l'obiettivo di "estendere  di  fatto"
 il  contenuto  economico-normativo  della  contrattazione  collettiva
 vigente  (pur  mantenendone  inalterata   la   sfera   di   efficacia
 soggettiva)   ai   rapporti   di  lavoro  attinenti  ad  un'attivita'
 imprenditoriale,  "nella  quale  sia  a  vario  titolo  implicata  la
 pubblica  amministrazione";  e cio' tramite l'inserzione obbligatoria
 nei provvedimenti concessori di benefici  ovvero  nei  capitolati  di
 appalto della clausola di equo trattamento, da essa prevista.
   4.  -  Individuata,  percio',  la  ratio  della disposizione "nella
 esigenza che,  ove  nell'esercizio  di  un'attivita'  imprenditoriale
 intervenga  la  pubblica  amministrazione (in quanto questa eroghi in
 relazione ad essa benefici  di  carattere  finanziario  o  creditizio
 ovvero ne affidi ad altri il compimento), sia assicurato uno standard
 minimo  di  tutela  ai  dipendenti  che ne siano coinvolti", la Corte
 rimettente ritiene che, alla luce dell'art.  3,  primo  comma,  della
 Costituzione,  non  sia  giustificata  l'esclusione,  dall'ambito  di
 applicazione della disposizione  medesima,  dei  rapporti  di  lavoro
 facenti capo a concessionari di pubblici servizi.
   Nel  senso  dell'incostituzionalita'  di  tale  esclusione  depone,
 secondo  l'ordinanza,  la  sostanziale   omogeneita'   fra   le   due
 fattispecie  (appalti  di  opere  pubbliche e concessioni di pubblici
 servizi),  che,  sebbene  differenti  quanto  a  natura  giuridica  e
 disciplina,   evidenziano,   entrambe,   l'interesse  della  pubblica
 amministrazione alla predisposizione di un equo trattamento in favore
 del  personale   occupato   nelle   rispettive   attivita'.   Secondo
 l'ordinanza,   "la   generalizzata   estensione   del  principio  che
 costituisce il fondamento" dell'art. 36 della legge n. 300 del  1970,
 "si  rivela,  del  resto, aderente al dovere di imparzialita' proprio
 della p.a. (art. 97 della Costituzione),  che  non  troverebbe  piena
 attuazione  ove  una  tutela  minima fosse garantita ai lavoratori in
 riferimento ad alcune soltanto delle attivita' imprenditoriali in cui
 la p.a. stessa sia implicata".
   Oltretutto, sarebbe inaccettabile che le imprese  operanti  con  la
 pubblica  amministrazione  possano  "trarre un profitto aggiuntivo" a
 scapito dei  propri  dipendenti,  sottraendosi  all'osservanza  della
 contrattazione  collettiva,  laddove,  invece,  il  corrispettivo che
 ricevono,  per  la  "realizzazione  di  un  interesse  pubblico",  e'
 rapportato  anche  ai  presumibili  oneri  di  carattere retributivo,
 "innegabilmente  determinati  con  riferimento  ad   un   trattamento
 adeguato  quantomeno  a  quello  previsto dai contratti collettivi di
 categoria".
                         Considerato in diritto
   1. - Con l'ordinanza in epigrafe indicata, la Corte  di  cassazione
 dubita  della legittimita' costituzionale dell'art. 36 della legge 20
 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei
 lavoratori, della liberta' sindacale e dell'attivita'  sindacale  nei
 luoghi di lavoro e norme sul collocamento).
   Il  rimettente e' dell'avviso che il predetto art. 36, "nella parte
 in cui non prevede l'inserzione obbligatoria della clausola  di  equo
 trattamento  nei  contratti  aventi  ad  oggetto  la  concessione  di
 pubblici servizi", si ponga in contrasto con l'art. 3,  primo  comma,
 della Costituzione, non trovando giustificazione alcuna la disparita'
 di  trattamento esistente tra i lavoratori che prestino la loro opera
 alle dipendenze di detti concessionari  e  quelli  che  la  prestino,
 invece,   alle   dipendenze   delle  imprese  appaltatrici  di  opere
 pubbliche.
   2. -  Chiamato  a  pronunciarsi  in  una  controversia  di  lavoro,
 instaurata  da  un medico dipendente di una casa di cura, titolare di
 un rapporto concessorio riconducibile alla tipologia di cui  all'art.
 44  della  legge  23  dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio
 sanitario nazionale), il giudice a quo ha ritenuto, nella delibazione
 dei motivi di ricorso a lui  sottoposti,  di  dare  la  precedenza  a
 quello  riguardante  l'applicabilita', alla fattispecie, dell'art. 36
 della  legge  n. 300 del 1970 (c.d. statuto dei lavoratori), rispetto
 agli  altri  mezzi  di  gravame,  concernenti,  rispettivamente,   la
 configurabilita'  della  diretta  legittimazione  dei  lavoratori  ad
 esigere il rispetto del trattamento  economico  e  normativo  cui  si
 riferisce  la  disposizione  censurata,  pur in mancanza del concreto
 inserimento  della  cosiddetta  "clausola   sociale"   nel   rapporto
 concessorio, nonche' l'efficacia, nei confronti del datore di lavoro,
 di  contratti  collettivi  successivi  a quello cui il medesimo aveva
 prestato adesione.
   Come questa Corte ha gia' avuto occasione piu' volte di  affermare,
 l'ordine  logico  secondo il quale il rimettente reputa di affrontare
 le varie questioni o motivi di ricorso portati al suo  esame  non  e'
 sindacabile  in  questa  sede.  Nulla osta percio' all'ammissibilita'
 della sollevata questione di costituzionalita', non potendosi  negare
 la rilevanza della medesima ai fini del decidere.
   3. - Nel merito, la questione e' fondata.
   L'art.  36  della  legge  20  maggio 1970, n. 300 prevede che, "nei
 provvedimenti di concessione di benefici  accordati  ai  sensi  delle
 vigenti  leggi  dallo  Stato  a favore di imprenditori che esercitano
 professionalmente un'attivita' economica organizzata e nei capitolati
 d'appalto attinenti all'esecuzione di opere  pubbliche,  deve  essere
 inserita   la   clausola  esplicita  determinante  l'obbligo  per  il
 beneficiario o appaltatore  di  applicare  o  di  far  applicare  nei
 confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle
 risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della
 zona".
   La  disposizione si colloca nella scia di un indirizzo legislativo,
 circa l'ingerenza della amministrazione nella disciplina dei rapporti
 tra imprese appaltatrici  di  opere  pubbliche  o  concessionarie  di
 pubblici   servizi  e  rispettivi  lavoratori  dipendenti,  piu'  che
 secolare, risalendo esso addirittura  all'art.  357  della  legge  20
 marzo  1865,  n.  2248, allegato F (che autorizza l'amministrazione a
 pagare  "la  mercede...    rifiutata  senza  giusto  motivo,  o   non
 corrisposta    nel   termine   consueto",   con   le   somme   dovute
 all'appaltatore). Nell'ambito di tale  indirizzo,  come  rammenta  lo
 stesso  giudice  a quo, si collocano anche piu' recenti provvedimenti
 (tra cui l'art. 8  della  legge  25  giugno  1956,  n.  695,  recante
 disposizioni  in  favore dell'industria zolfiera, l'art. 2 del d.P.R.
 22 novembre 1961, n. 1192, sulla disciplina della mano d'opera  negli
 appalti  concessi dalle Amministrazioni autonome delle ferrovie dello
 Stato, dei monopoli di Stato e delle poste  e  telecomunicazioni,  il
 d.P.R.  16  luglio 1962, n. 1063, approvativo del capitolato generale
 d'appalto  del  Ministero  dei  lavori  pubblici),  espressivi  della
 tendenza  a  stabilire clausole di garanzia di equo trattamento nelle
 attivita'  economiche  in  cui   interviene,   sovente   con   misure
 agevolative,  la  mano  pubblica.  Detta  tendenza  trova la sua piu'
 significativa manifestazione proprio nell'art. 36 dello  Statuto  dei
 lavoratori,  il  quale  supera,  infatti, il carattere settoriale dei
 precedenti interventi, recependo,  nel  contempo,  i  principi  della
 convenzione  OIL n. 94 del 1949, resa esecutiva in Italia con legge 2
 agosto 1952, n. 1305, volti a prevedere che i contratti ivi indicati,
 stipulati dagli imprenditori privati con la pubblica amministrazione,
 contengano clausole che assicurino retribuzioni ed  altre  condizioni
 del  rapporto di lavoro non meno favorevoli di quelle derivanti dalla
 contrattazione collettiva.
   Le  norme  derivanti  da  tale  convenzione,  secondo  la  tesi del
 rimettente, sulla quale questa Corte  non  puo'  non  convenire,  non
 hanno  tuttavia  carattere  autoapplicativo,  apparendo  essa, per il
 tenore stesso delle relative disposizioni,  non  certo  di  esaustiva
 regolamentazione,  e  potendosi,  oltretutto, dubitare della puntuale
 considerazione, in seno alla medesima,  anche  delle  concessioni  di
 pubblico  servizio,  affidate  con atto autoritativo provvedimentale,
 alla stregua anche di quanto risulta dalla coeva raccomandazione  OIL
 n. 84, intesa a sollecitare da parte degli Stati contraenti - in caso
 di "autorizzazioni" a datori di lavoro privati per l'esercizio "di un
 servizio  di pubblica utilita'" - l'adozione di "clausole relative ai
 rapporti di lavoro sostanzialmente analoghe a quelle previste  per  i
 contratti pubblici".
   Nell'impossibilita',  percio',  di  rinvenire nella sopra ricordata
 convenzione una disciplina applicabile direttamente alla fattispecie,
 si' da superare, per tal via, la questione sollevata dal  rimettente,
 si  pone  l'esigenza di verificare se la mancata previsione, da parte
 dell'art. 36, della ipotesi segnalata dall'ordinanza - e cioe' di  un
 rapporto  convenzionale  fra  Regione e clinica privata riconducibile
 sostanzialmente alla  tipologia  concessoria  di  pubblico  servizio,
 prevista  dall'art.  44 della legge n. 833 del 1978 - sia espressione
 di legittima scelta del legislatore, ovvero frutto  di  irragionevole
 discriminazione,  a  fronte  di una situazione omologabile alle altre
 tutelate dalla norma.
   Diviene, dunque,  decisiva  la  considerazione  della  ratio  della
 disposizione   censurata,   da   rinvenire,   secondo  la  prevalente
 giurisprudenza,  nell'esigenza  che,  ove   nell'esercizio   di   una
 determinata   attivita'   imprenditoriale   intervenga   la  pubblica
 amministrazione  (in  quanto  essa  eroghi  benefici   di   carattere
 finanziario  o  creditizio  ovvero  affidi  ad  altri  il  compimento
 dell'attivita' stessa), sia assicurato uno standard minimo di  tutela
 ai   dipendenti   coinvolti.  Non  e'  senza  rilievo,  peraltro,  la
 circostanza che anche coloro che, in via minoritaria, individuano  lo
 scopo  precipuo  della  norma  nella  valorizzazione della dimensione
 collettiva degli strumenti da essa considerati pongono,  pur  sempre,
 in evidenza l'intimo collegamento che sussiste tra siffatto profilo e
 quello dell'esigenza di tutela del lavoro subordinato, sottolineando,
 in  tal  modo,  l'ispirazione  e  la  funzione  di  garanzia  che  la
 disposizione,  in  ogni  caso,  svolge  in  favore   dei   lavoratori
 utilizzati  presso  imprese  private  che  hanno  ottenuto benefici o
 appalti dallo Stato.
   4. - A fronte di tale finalita' della legge, v'e', ovviamente,  pur
 sempre  da  domandarsi  se  la figura giuridica dell'appalto di opere
 pubbliche non sia espressiva, di per se', di peculiari esigenze  che,
 nell'ambito della disposizione censurata, possano fungere, nonostante
 l'ampiezza  della  ratio  cui  si  ispira  la  legge,  da ragionevole
 criterio  di  diversificazione   rispetto   alla   situazione   della
 concessione di pubblici servizi.
   In  via  di  principio,  non e' dubbia la diversita' tra appalto di
 opere pubbliche e concessione di  pubblico  servizio,  anche  per  il
 maggior rilievo tradizionalmente assunto, per la seconda, dal momento
 provvedimentale-autoritativo.    Cio'   non   puo',   tuttavia,   far
 disconoscere, al di la' del dibattito sulla definizione  in  generale
 dell'istituto,   che   anche  le  concessioni  di  pubblico  servizio
 partecipano di una regolamentazione c.d. "contrattuale" del contenuto
 dell'attivita' devoluta  all'imprenditore  privato;  regolamentazione
 che,  nell'introdurre  elementi  di disciplina del diritto comune, si
 pone, gia' di per se', in funzione latamente assimilativa tra le  due
 figure.
   Inoltre,   anche   se  pertiene  indefettibilmente  all'appalto  il
 profilo,   istituzionalizzato,   "della   scelta   del   contraente",
 finalizzata  alla  migliore  realizzazione  dell'interesse  pubblico,
 secondo i principi della concorrenza tra imprenditori  (per  ottenere
 la  pubblica  amministrazione  le condizioni piu' favorevoli) e della
 parita' di trattamento dei concorrenti nella gara (per assicurare  il
 miglior  risultato  della procedura concorsuale senza alterazioni e/o
 turbative),  non  si  puo'  certo  ignorare  che  il   principio   di
 acquisizione della prestazione alle condizioni piu' favorevoli per la
 pubblica amministrazione non rimane estraneo neppure alle concessioni
 di  pubblico  servizio.  E cio' in vista dell'esigenza della migliore
 soddisfazione dell'interesse pubblico che l'imprenditore e' tenuto  a
 realizzare,  attraverso  una  ricerca  di mezzi adeguati e pertinenti
 allo  scopo,  tale  da  comportare  una  selezione  tra  gli   stessi
 (soprattutto  in  tempi di eliminazione dei regimi monopolistici). In
 tal senso, anche i costi per le imprese,  derivanti  dall'obbligo  di
 "equo  trattamento",  concorrono  alla  migliore  individuazione  del
 soggetto idoneo e cio' vale, indubbiamente, per  entrambe  le  figure
 giuridiche in esame.
   Aggiungasi,   inoltre,   che   la  parita'  di  trattamento  tra  i
 concorrenti nella "gara" e' - come esattamente nota il  rimettente  -
 espressione,   in   ogni   caso,   del  piu'  generale  principio  di
 imparzialita', ex art.  97 della Costituzione, cui e'  sempre  tenuta
 la   pubblica   amministrazione   e  che,  come  tale,  e'  pervasivo
 dell'intera  attivita'  amministrativa,  risultando   necessariamente
 inerente anche a quella concessoria.
   A  questo  proposito  puo',  anzi,  osservarsi  che, non a caso, la
 giurisprudenza della Cassazione ha ricollegato  all'inserzione  della
 clausola  sociale  uno  specifico interesse dell'amministrazione alla
 "regolare  esecuzione   dell'opera   nei   termini   contrattualmente
 previsti",  evitando  cosi'  di  rimanere  "esposta  alle conseguenze
 dannose provocate dalla conflittualita' e  dalle  rivendicazioni  che
 insorgono  abitualmente  a  causa  della inosservanza della normativa
 collettiva" (Cassazione n. 3640 del 1981).
   5. - La conclusione  alla  quale,  in  relazione  a  quanto  detto,
 occorre  pervenire  e', allora, nel senso che lo strumento utilizzato
 per la scelta del  contraente  non  viene  ad  introdurre,  sotto  lo
 specifico  profilo  dell'inserzione  della  c.d.  "clausola sociale",
 aspetti peculiarmente caratterizzanti l'appalto  di  opere  pubbliche
 rispetto  alla  concessione  di  pubblici servizi e, soprattutto, non
 concorre ad enucleare la precipua ratio dell'art.  36  dello  Statuto
 dei  lavoratori, come, tra l'altro, avvalora la circostanza che detta
 disposizione accomuna le ipotesi degli appalti di opere  pubbliche  a
 quelle  dei "benefici finanziari e creditizi", rispetto ai quali sono
 ben lungi dal rilevare le problematiche esaminate.
   Acclarato, percio', che lo scopo della norma e'  quello,  entro  il
 quadro  delineato dal principio di imparzialita' e buon andamento, di
 tutela del lavoro subordinato in situazioni nelle quali lo  Stato  e'
 in  grado  di influire direttamente o indirettamente, la stessa ratio
 della disposizione ed il suo corretto collegamento "soggettivo" con i
 "lavoratori  subordinati"  portano la Corte a ritenere ingiustificata
 l'esclusione, dal suo ambito di efficacia, dei lavoratori  dipendenti
 da  imprese  che  esercitano  un  pubblico  servizio  sulla  base  di
 concessione della pubblica amministrazione.