MINISTRO PER LA FUNZIONE PUBBLICA

CIRCOLARE 8 gennaio 1991, n. 6039

Procedimento amministrativo. Obbligo di conclusione. Art. 2, legge 7 agosto 1990, n. 241.

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vigente al 15/06/2024
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Art. 1

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I) La legge 7 agosto 1990, n. 241, art. 2, dispone, tra l'altro, che il procedimento amministrativo deve essere concluso mediante l'adozione di un provvedimento "espresso", se lo stesso procedimento debba avere inizio d'ufficio o a seguito di istanza di parte. La citata norma dispone anche relativamente al termine entro il quale il procedimento deve concludersi. La necessità di concludere il procedimento con un atto risponde a principi costantemente affermati e relativi alla obbligatorietà nella esplicazione della funzione amministrativa. La conclusione del procedimento non è fondatamente prospettabile in presenza di una qualunque istanza o di un qualunque evento, è necessario individuare l'obbligo di intervento da parte dell'amministrazione. Ove tale obbligo non sia desumibile dalla normativa vigente non sussiste corrispondentemente il dovere di concludere il procedimento e quindi di emettere il provvedimento.
Così, a titolo di esempio, è utile far riferimento all'ipotesi di una istanza preordinata all'annullamento di un atto divenuto inoppugnabile; rispetto a tale istanza, giusta consolidata impostazione giurisprudenziale, non sussiste alcun obbligo di provvedere. Una diversa conclusione importerebbe una sostanziale elusione dei termini perentori previsti per censurare in sede contenziosa gli atti dell'amministrazione. In queste ipotesi non sorge l'obbligo di adottare un provvedimento sull'istanza di annullamento d'ufficio.
Se dovesse essere presentata una domanda di concessione edilizia, da parte del proprietario di un suolo o di un soggetto, che ha comunque la disponibilità del suolo stesso, è indubbio l'obbligo per l'amministrazione di esaminare la stessa istanza e di emettere un provvedimento concessivo o di diniego. L'esistenza di un interesse giuridicamente rilevante all'utilizzazione del suolo importa l'obbligo dell'amministrazione di iniziare e concludere il procedimento in vista della verifica di compatibilità della realizzazione di tale interesse con l'esigenza collettiva salvaguardata dalla normativa urbanistica e da quella in materia di edilizia.
Non è profilabile un obbligo di pronuncia se l'istante non ha dato la dimostrazione di essere titolare della disponibilità del suolo.
In tale ipotesi difetta l'interesse giuridicamente protetto che è a fondamento dell'obbligo di pronuncia da parte dell'amministrazione.
Alla stessa conclusione si deve arrivare se l'istanza sia stata presentata pur da persona legittimata all'uso del suolo ma durante il periodo di vigenza delle misure ordinarie di salvaguardia. Queste ultime infatti precludono all'amministrazione di decidere sulle istanze di concessione edilizia. Ciò al fine di evitare un'alterazione dei luoghi in pendenza del procedimento di approvazione dello strumento urbanistico già deliberato dal consiglio comunale.
Le suesposte conclusioni valgono anche quando il procedimento amministrativo debbe essere iniziato d'ufficio. A tale riguardo si può fare utile riferimento ai procedimenti amministrativi preordinati alla repressione di illeciti edilizi e quindi all'adozione di eventuali misure di polizia edilizia.
II) L'obbligo di concludere il procedimento con un atto non importa la irrilevanza della tematica, da lungo tempo elaborata, e relativa al silenzio qualificato della pubblica amministrazione nelle due forme del silenzio-rifiuto e del silenzio-rigetto.
Infatti tale tematica, rispetto alla quale sono da menzionare, in particolare, le decisioni dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 1960 e n. 10 del 1978, è preordinata al fine di attribuire una specifica rilevanza giuridica all'inerzia imputabile all'amministrazione, in modo da permettere alla parte, che assume di essere pregiudicata dalla stessa inerzia l'esperibilità di gravami o ricorsi. Tale finalità permane anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 241 del 1990. Infatti l'eventuale omissione di pronuncia da parte dell'amministrazione pubblica non può costituire un ostacolo per la parte interessata ad esperire rimedi contenziosi (esempio ricorso straordinario al Capo dello Stato, ricorso giurisdizionale davanti al giudice amministrativo) rivolti al superamento della stessa inerzia.
Questa conclusione non può essere disattesa sul presupposto che la formazione del silenzio qualificato equivale a cessazione della competenza amministrativa. In effetti la delineazione di una omissione di pronuncia non preclude l'adozione del provvedimento, tranne nell'ipotesi in cui il difetto di adozione di un atto non sia causa di decadenza dai poteri dell'amministrazione. Al riguardo è utile tener conto di quanto precisato dall'adunanza plenaria del Consiglio di Stato con decisioni numeri 16 e 17 del 1989, secondo le quali la formazione del silenzio rigetto sul ricorso gerarchico non preclude all'amministrazione la possibilità di decidere, sia pur tardivamente, sullo stesso ricorso.
La tesi suesposta naturalmente non è sostenibile se la normativa è nel senso che la scadenza del termine, entro il quale si sarebbe dovuto provvedere, implica la decadenza dell'amministrazione dal potere di decidere. A tale proposito è utile il riferimento alla normativa concernente il controllo sugli atti degli enti locali, che deve essere concluso entro il termine perentorio di venti gorni dalla ricezione della deliberazione da controllare; scaduto tale termine è preclusa la possibilità di annullare l'atto sottoposto a controllo, art. 46 della legge 8 giugno 1990, n. 142.
III) Il citato art. 2 dispone nel senso che le pubbliche amministrazioni determinano per ciascun tipo di procedimento il termine entro il quale il procedimento medesimo deve concludersi.
Tale determinazione non è adottabile con riferimento a ogni singolo procedimento posto che l'art. 2, secondo comma, della legge n. 241 fa esplicito riferimento al "tipo" di procedimento; quindi la determinazione stessa può essere disposta solo con riferimento a singole classi di procedimento. Non si può trascurare di precisare che la determinazione, alla quale si è fatto cenno, ha natura sussidiaria in quanto possibile solo sul presupposto della assenza di disposizioni, sul punto, di natura legislativa o regolamentare.
Pertanto in materia di procedimento di decisione sulla domanda di concessione edilizia abitativa non si porrà il problema della determinazione del termine, se sarà confermata la normativa secondo cui, dopo la scadenza dei novanta giorni dalla presentazione dell'istanza, si delinea una situazione uguale a quella
conseguente all'emanazione della concessione. Qualora la determinazione, in mancanza di disposizioni legislative o regolamentari, non fosse adottata, l'art. 2 dispone nel senso che il termine entro il quale concludere il procedimento è di trenta giorni. Al riguardo si deve comunque precisare che la legge n. 241 non dispone nel senso della qualificazione dell'inerzia imputabile all'amministrazione, pertanto è necessario seguire la normale procedura per la determinazione del silenzio-rifiuto imputabile all'amministrazione. Per quanto riguarda il silenzio-rigetto non si pone alcun problema, posto che l'ordinamento vigente dispone nel senso di uno specifico termine, entro il quale decidere i ricorsi amministrativi per opposizione o gerarchici; la scadenza di tale termine implica la formazione del silenzio-rigetto (decreto del Presidente della Repubblica 24 novembre 1971, n. 1199, art. 6).
IV) La scadenza dei termini, entro i quali concludere il procedimento (sia che si tratta di termini stabiliti per legge, per regolamento o determinati dalla stessa amministrazione, art. 2, secondo comma, della legge 7 agosto 1990, n. 241, sia che si tratta del termine di trenta giorni, previsto dall'art. 2 terzo comma stessa legge), non importa, in via di principio, una situazione uguale a quella conseguente alla emanazione di un provvedimento positivo (c.d. silenzio-assenso). Invero nessuna disposizione del citato art. 2 stabilisce l'equivalenza tra scadenza del termine e silenzio-assenso.
L'art. 2 fissa solo l'obbligo di concludere il procedimento entro i termini prefissati; lo stesso art. 2 è privo di disposizioni relative al trattamento giuridico da riservare all'inerzia imputabile all'amministrazione, pertanto è indispensabile far riferimento ai principi consolidati in materia di silenzio della pubblica amministrazione.
V) È da escludere che la scadenza dei termini entro i quali completare il procedimento, art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, implichi la privazione dei poteri spettanti all'amministrazione.
In assenza di specifiche disposizioni, in base alle quali la scadenza dei termini è causa della decadenza della competenza dell'amministrazione (es. art. 46 della legge 8 giugno 1990, n. 142, già citata), si deve concludere nel senso della permanenza della possibilità dell'amministrazione pubblica di provvedere anche dopo la scadenza dei termini e la stessa formazione del silenzio; utili spunti al riguardo possono essere desunti dalle decisioni dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato 24 novembre 1989, n. 16 e 4 dicembre 1989, n. 17, alle quali si è già fatto cenno.
Naturalmente le osservazioni suesposte non si applicano all'ipotesi in cui, con regolamento, sia fissato un termine, scaduto il quale l'attività denunciata può essere lecitamente iniziata, art. 19, secondo comma, ultima parte, della legge 7 agosto 1990, n. 241. In questa ipotesi la scadenza del termine è oggetto di specifico trattamento da parte dell'ordinamento.
VI) Per concludere è utile richiamare la circolare, emanata da questo Dipartimento, del 4 dicembre 1990 concernente l'art. 328 del codice penale, così come modificato dall'art. 16 della legge 26 aprile 1990, n. 86.
Con tale circolare è stato precisato che per la consumazione del reato, previsto dal secondo comma del citato art. 328, non è sufficiente il difetto di emanazione del provvedimento entro trenta giorni dalla richiesta "di chi vi abbia interesse". Infatti la norma incriminatrice in esame dispone che la condotta del reato consiste nell'omissione dell'atto e della risposta sulle ragioni del ritardo.
Pertanto la consumazione del reato non coincide con la sola omissione di provvedimento.
Nella stessa circolare è stato altresì precisato che il primo comma del citato art. 328 fissa una norma incriminatrice avente carattere speciale.
Tale norma infatti commina la pena della reclusione da sei mesi a due anni per il rifiuto, da parte del pubblico ufficiale e dell'incaricato di un pubblico servizio, di un atto del suo ufficio, da emettere senza indugio per soddisfare esigenze di giustizia, di sicurezza pubblica, di ordine pubblico, di igiene e sanità.
Il Ministro: GASPARI